Un abito da sposa sul fondale, a destra, elegante, stiloso. Ambiente e didascalia. Immagine a connotare storia, tradizione, concezione, mentalità. Un carrello bar a sinistra, più verso il centro del palco, una sedia prima della ribalta, un musicista a sinistra in fondo e l’attrice, Angela De Gaetano, corpo, mimica, voce, gesto. Bocche di dama si potrebbe definire uno spettacolo essenziale. Quando il teatro con poco e senza bisogno di effetti audiovisivi, evoca scenari invisibili e suscita l’emozione dello spettatore.
Grotowsky lo avrebbe definito povero, designando al termine un significato alto, l’assenza di macchina e scenografia teatrale appannaggio dell’atto creativo e del linguaggio fisico e attoriale. Il gesto che non si lascia trapassare, materico.
Ma il teatro della De Gaetano non è propriamente fisico. Di parola piuttosto. Una parola nettamente prosaica, sciolta, irriverente, ironica. A dettare ritmi e suoni armonici di una dialettica asfittica. A evocare una trama meridionale, un racconto da vicoli stretti e bui serpeggianti tra slarghi campeggiati di barocco: una storia di malavita, l’immancabile famiglia, spose e vittime predestinate. La storia di una città attraverso una micro comunità familiare. Non importa quanto di autobiografico ci sia, lo spettatore, individualmente e collettivamente è proiettato sul palco. Personaggi figurati, resi immagine invisibile dalla parola incarnata da un’attrice schietta, padrona di linguaggio e gesto, carismatica. Narrazione ramificata in una drammaturgia a tratti dispersiva, che nel momento in cui ti rapisce zoomando sui dettagli apre la strada a nuovi innesti. Perché lamateria è corposa, urgente, da non lasciare nulla all’approssimativo.
Nessuna sintesi per la matassa che si sbroglia mettendo insieme i pezzi sul finale. La figlia del dritto di quartiere predestinata a un rampollo nobiliare in una Lecce antica eppure non così lontana. In cui luoghi e caratteristiche caratteriali della popolazione prendono vita minuziosi seppure escogitati. Una sposa per forza che fugge con la sua amata. Omosessualità in un contesto omofobo. Uno sgarro agli uomini d’onore. Principiando la narrazione da scambi pettegoli familiari, alla maniera di un teatro borghese paradossalmente pittoresco.
Le tracce molteplici di un’opera ampollosa si chiarificano nette mediante il corpo d’attrice, esuberante ma non eccessiva, curante del gesto chirurgico e autentico, che si libera dalla consuetudine per immergersi visibilmente nella scena.
Le sottolineature sonore a vivificare dimensioni e intenzioni. Le pause a scandire il livello di comprensione, dare fuga.
Lo spettacolo andato in scena nel festival estivo I Teatri della Cupa, a Campi Salentina e Novoli, tra luglio e agosto. Ideato e reso possibile dalla residenza artistica che la Compagnia Factory Transadriatica di Tonio De Nitto e la compagnia Principio Attivo Teatro allestiscono nel Salento. Terra di riti, di malia, cara a Bacco e Apollo. Terra di Sud. Corposa la presenza di pubblico nelle due fasi del festival a testimoniare un rapporto col territorio assolutamente non millantato. La comunità che si specchia nel proprio destino. Di latitudini lontane, di penisola che ruota su sé stessa e fa girare la testa.