Forse il fulcro de Il misantropo non è il misantropo: è Célimène, invece, ma Célimène chi è? Di lei sappiamo che “possiede l’arte di piacere” e infatti piace: gli ammiratori fanno la fila alla sua porta, ognuno attende il turno e poi, neanche fosse uno spettatore con in mano il suo biglietto, viene accompagnato in salotto da un annuncia-presenze che si comporta come si comporta una maschera in platea: questo è il posto, signore, prego si accomodi.
Sa “mentire e sa “fare buon viso” Célimène, “conosce l’arte di fingere”, possiede “doppiezza d’animo” e “inganna”, usa talvolta “trucchi grossolani”, di certo “finge i sentimenti che dimostra”; è “un’ingannevole apparenza” dicono di lei, “non è come sembra” ancora dicono e – dopo aver ricordato che “oltre ad essere bugiarda” è anche “sfrontata” – aggiungono che il suo volto non è un volto ma una maschera: “Voglio smascherarla” non a caso dirà Alceste. D’altronde. A lei chiedono continuamente di sembrare, di mostrare, di far(si) vedere: “Vogliamo proprio vedere come vi giustificate” le dirà ad esempio Acaste, invitandola in questo modo a recitare. E lei recita – infatti – e mima, si immedesima e richiama alla memoria, hic et nunc. (…)
Célimène dunque è un’attrice (sono tirate da attrice i suoi monologhi) anzi dico di più: Célimène è il teatro tant’è che ne Il misantropo l’amore che Alceste prova per lei è fatto della stessa sostanza di cui è fatto l’amore che ha portato Molière a scegliere il teatro.