Se non fosse ovvio, su “Bocche di dama” si potrebbe dire che la realtà non è mai come appare: così, dietro Teresa, moglie devota e madre esemplare si nasconde una donna in costante travaglio che cela con un sorriso dolce e la cura del proprio aspetto un autentico pavore nei confronti di quello strozzino che ha sposato anni prima sperando, forse, che la dolcezza del focolare domestico potesse mitigare la bestialità di un uomo, don Leo, votato solo alla legge del più forte. Poi c’è Mariuccia: la figlia quindicenne protagonista di questo spettacolo teatrale di cui Angela De Gaetano è autrice, regista e interprete e che andrà in scena a Matera il 28 dicembre 2015 nella cornice di Casa Cava.
La De Gaetano porta in scena la quindicenne Mariuccia con tutti i sogni e il candore di un’adolescente, ma con un dolore segreto che suscita lo sbigottimento della piccola comunità di un Sud imprecisato e, tuttavia, vicinissimo alla città di Lecce degli anni Cinquanta, quando nascere donne – e, per di più, omosessuali – significava esser condannate all’annientamento di sé. “Bocche di dama” di Angela De Gaetano è la trasposizione teatrale, ora triste ora ironica, di quell’illusione di cambiare il mondo che non dovrebbe mai tramontare e che, probabilmente, è metafora dell’arte stessa. Ne abbiamo parlato con la De Gaetano, cercando di approfondire le motivazioni che l’hanno indotta a dedicarsi a questo progetto e le attese per il futuro.
Definire “Bocche di dama” una piéce sul lesbismo è certamente riduttivo. Il teatro, d’altronde, per le emozioni che raccoglie e incanala sfugge, a qualsiasi definizione, tuttavia, se dovessi presentare il tuo spettacolo in poche battute, cosa diresti?
“Questo spettacolo per me è stato uno shock, non solo perché ha segnato il mio esordio negli àmbiti di drammaturgia e regia, ma anche e soprattutto perché l’ho sentito come un figlio, come la concretizzazione di un atto d’amore per il teatro e per me stessa: scriverlo e portarlo sulla scena ha rappresentato una scommessa e una sorpresa. Io non avevo programmato di realizzare questo lavoro. Per me è stato un banco di prova importante e la prova è il vero senso del teatro: chi sceglie di fare teatro decide – mi si passi la metafora un po’ messianica – di andare verso il buio per cercare la luce, ossia di avventurarsi verso ciò che si non conosce per acquisire consapevolezza di sé e dell’altro. Non è un caso che, lavorando a Bocche di dama, io mi sia trovata a confrontarmi con la mia solitudine e con quel senso di vuoto che appartiene, forse, a ciascuno di noi. Nella relazione con i miei personaggi e con il pubblico attraverso la mediazione del teatro, ho superato questa solitudine, ma non volevo né m’illudevo di colmare il vuoto: il mio obiettivo era quello di reinterpretare questo vuoto per passare dal piano esistenziale alla metafora artistica”.
Oggi cambieresti qualcosa in “Bocche di dama”? C’è qualcosa che avresti evitato, ma che l’autonomia pirandelliana dei personaggi ti ha obbligata ad affrontare?
“No, sebbene riconosca che la storia abbia preso progressivamente una vita autonoma: io l’ho avviata, ma poi è stata lei a guidare me e sono contenta che ciò sia avvenuto. Vedere poi l’accoglienza del pubblico mi ha riempita d’entusiasmo, perché ho capito che, proprio per questa sua esistenza per così dire indipendente, Bocche di dama vive oltre me, superando le mie attese personali e artistiche. Forse, sono più legata oggi a questo spettacolo rispetto alle prime repliche: oggi lo difendo con maggior vigore non solo perché sia mio, ma perché oggi non è più solo mio. Insieme a me, quando sono in scena, sento la forza degli spettatori che lo hanno visto e apprezzato”.
Continuerai sulla via del teatro di narrazione?
“Non credo. Questo spettacolo mi ha richiesto così tante energie che ho in mente di cambiare completamente genere, perché avrei paura, continuando sulla stessa strada, di non riuscire più a metterci il cuore. In Bocche di dama ho raccontato una realtà che sentivo vicina: la discriminazione contro le donne. Io credo che, purtroppo, questo retaggio ci appartenga ancora come ci appartiene ancora l’ignoranza omofoba”.
In che senso, a tuo parere, la discriminazione contro le donne connota ancora la nostra società?
“Io lo vedo costantemente nel mio settore, confrontandomi con le colleghe e mi dispiace ammettere che nel lavoro artistico la discriminazione di genere è ancora forte, non solo per un retaggio culturale che vede nelle donne un ostacolo piuttosto che una risorsa, bensì anche per un’intrinseca fatica a riconoscere, da parte di alcuni, la capacità autoriale e di regia che può germogliare tanto nelle donne quanto negli uomini. Io ho scritto il testo e realizzato la regia di Bocche di dama: non l’ho soltanto interpretato sul palco e, nell’estate appena trascorsa, ho curato la regia del Canto del pane, spettacolo prodotto da ARTEria, associazione di arte e cultura che nasce e opera a Matera, città eletta Capitale della cultura per il 2019. Nonostante questo, rimango per molti l’attrice, perché sembra si abbia una certa difficoltà a riconoscere che più talenti possano coesistere in una donna. Spesso mi accolgono con l’aggettivo di carismatica: sono contenta di essere un’attrice carismatica, ma non sono soltanto questo”.
Cosa puoi dirci dell’esperienza a Matera?
“La regia del Canto del pane mi è stata affidata dopo che l’autore del testo, Dario Carmentano, aveva assistito a una replica di Bocche di dama. Qualche giorno dopo lo spettacolo, mi è arrivato il suo invito che ho accolto con gioia ancora una volta perché mi offriva la possibilità di sperimentarmi. Mi sono diretta da sola – ho pensato – il passo successivo è dirigere altri attori. Ho avuto anche la possibilità di studiare la storia di un territorio che è straordinariamente ricco di tradizioni a forte carica simbolica: il pane stesso, cui è dedicato lo spettacolo, ha una valenza simbolica che non è quella religiosa alla quale penseremmo immediatamente, bensì riguarda soprattutto la cultura popolare”.
Rifaresti la scelta di lavorare nel teatro?
“Credo che lavorare nel teatro sia una scelta che si rinnova ogni giorno. Ogni giorno devi chiederti se vuoi continuare perché è un lavoro che richiede abnegazione completa e grande capacità di rigenerarsi continuamente per essere al meglio delle tue forze. Quando sei in scena, il pubblico non perdona disattenzione e sciatteria. All’inizio della mia formazione con Koreja, quattordici anni fa, non immaginavo che il teatro sarebbe diventato la mia professione e la mia ossessione benché, forse, quando accettai di seguire il corso per educatrice teatrale, sapessi che andare in scena era un mio sogno nel cassetto. Del teatro amo la completa assenza di sterili abitudini e la costante rinascita: non sono uguali i progetti, né il pubblico che assiste alle repliche e, spesso, cambiano anche i colleghi. È un continuo entrare in contatto con la realtà per la prima volta e questo mi suscita stupore e meraviglia, insieme con l’idea della profonda dignità dell’umano che il teatro riscopre: quando sei in scena, sei solo con te stesso e con il pubblico e sei corpo, mente e cuore in ogni singolo istante. In quell’istante, non puoi che dare il meglio se credi in ciò che fai e questo ti gratifica. Certo, devi tener conto dell’imprevisto: al pubblico puoi anche non piacere e questo deve smuovere in te qualche interrogativo senza però crogiolarti nella frustrazione. Dal teatro ho imparato a guardare l’imprevisto diritto negli occhi e a non chiudermi in casa, cioè in quello che già conosco. In questo senso, rinasco ogni volta provando lo stupore di un bambino che apre gli occhi al mondo”.